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Un dollaro americano

Sulla libreria del salotto c’è un vasetto di vetro che contiene una banconota da dollaro. Se guardate bene attraverso il vetro, noterete che è una banconota piuttosto vecchia, usata e stropicciata molte volte da molte mani. Non ho mai pensato di stenderla o stirarla, o metterla tra le pagine di un libro per raddrizzarla un po’. Il giorno che la guadagnai non riuscii a pensare ad altro che al primo centesimo di Paperon De’ Paperoni e la infilai in un barattolo dove la dimenticai per molti anni prima di trasferirmi nuovamente nel mio paese natale e arredare la casa dove ancora abito.




A dodici anni mi fu chiesto di decidere se lavorare con mia madre o stare a casa a fare le pulizie. Dodici anni era l’età giusta per fare i lavori da donnina, disse mio padre, e questo poteva anche comprendere essere una commessa nel negozio di mia madre durante i weekend e nei periodi di maggiore flusso turistico. In alternativa avrei potuto pulire casa, cucinare e stirare le camicie di mio padre, che per lavoro doveva indossarne una al giorno. Scelsi di aiutare in negozio malgrado la mia timidezza e goffaggine nel parlare in pubblico. Solo pochi anni prima avevo fatto scena muta ad una recita scolastica e pochi mesi dopo ero inciampata sulla parola mamma della poesia che avevo scritto per mia madre e che era stata dichiarata la più meritevole di essere letta ad alta voce, al microfono, davanti a tutta la scuola in occasione della Festa della Mamma.

Non fu subito facile essere alle dipendenze di mia madre. I genitori sono molto diversi sul posto di lavoro e in negozio non era la dolce mammina che si occupava con tenerezza di me a casa e che mi preparava la merenda togliendo il grasso dal prosciutto. Non fraintendetemi, non era un’arpia, ma aveva stabilito i miei compiti come con una commessa stipendiata: dovevo occuparmi dell’apertura, pulire le mensole di vetro spostando tutti gli oggetti e rimettendoli esattamente al loro posto dietro ai segnaprezzi adesivi che erano appiccicati al vetro e, soprattutto, occuparmi dei clienti all’ingresso. Era la cosa che mi terrorizzava di più: mia madre mi aveva inizialmente chiesto di guardare al porta-cartoline: quando c’era affollamento di turisti qualcuno cercava sempre di rubarle e io dovevo fare la guardia. Questo comprendeva però anche invitare i clienti che si fermavano davanti alle vetrine della bigiotteria e degli argenti a provare i pezzi a cui sembravano interessati. C’erano frasi standard con cui dovevo rivolgermi a loro:
Vuole provare qualcosa?
E’ argento placcato oro…
Se vuole entrare, abbiamo un grande assortimento
Le servono i francobolli?
Chieda pure se vuole sapere qualche prezzo
E tutti gli equivalenti in lingua
Voulez-vous essayer quelque chose?
C'est de l'argent plaqué or
Möchtest sie briefmarken?
Do you want to know some price?
If you want to enter, we have a lot of assortment

Ero letteralmente terrorizzata: apostrofare dei perfetti estranei che magari volevano solo farsi gli affari loro e che potevano anche rispondermi male!
E come se non bastasse, dovevo salutare chiunque entrasse nel negozio, non importa se non mi salutavano, non importa se avevano lo sguardo a terra o se giravano dietro le vetrine per restare inosservati. Dovevo salutare ad alta voce.
«Ma io mi vergogno», dissi un giorno a mia madre.
«E di cosa ti vergogni,» mi disse lei. «Sei a casa tua, stanno entrando degli ospiti e tu li saluti. Non importa se non rispondono: tu sei educata e li saluti. Magari non gli importa, ma tu in questo modo fai loro sapere che ci sei. Pensi di essere timida, pensi di vergognarti, ma la maggior parte di coloro che entrano senza salutare sono più timidi di te. Se li saluti sapranno che possono contare sul tuo aiuto.»
Lavorare con mia madre è stata una grande lezione. Ho visto una donna forte, decisa, in grado di amministrare la cassa e il magazzino di una piccola attività, di fare acquisti rischiando e di gioire ogni volta che vedeva un cliente uscire soddisfatto. Non mi faceva sconti sull’orario e mi sgridava quando non trattavo al meglio un cliente, a lei non importava che quelli fossero turisti stranieri. Li trattava tutti come se fossero clienti abituali che potevano ritornare in ogni momento. L’ho sempre ammirata per questo.

Grazie a lei ho conosciuto gente di tutti i paesi: inglesi che non capivano cosa stessi dicendo, scozzesi che si complimentavano per il mio inglese, francesi che partivano in conversazioni infinite appena gli dicevo un prezzo in francese:
«Ah mais vous parlez français!»
«Non, ce n'est pas le français, c'est le dialecte de Saint-Marin…»

Un giorno di giugno, avevo sì e no quattordici anni, entrò in negozio un uomo altissimo con uno strano cappello da cow-boy. Lui e la moglie mi chiesero di provare delle collane, lei indossava uno scamiciato con una fantasia di fiori gialli, lui una camicia a maniche corte con dei jeans attillati e una cintura con una grossa fibbia di metallo lavorato, come andava in quegli anni. Parlavano in inglese, ma ero quasi certa che non fossero britannici o americani, cercai di soddisfare le loro richieste scusandomi per il mio pessimo inglese e l’uomo sorridendo mi disse che non c’era motivo di scusarsi, poiché io parlavo in italiano e riuscivo a farmi capire benissimo col mio inglese, mentre loro non conoscevano altra lingua che quella. Acquistarono qualche collana, delle spille per capelli e un paio di occhiali, molte cartoline e alcuni cucchiaini con lo stemma di San Marino. Erano i favolosi anni ottanta, quando ancora si inviavano le cartoline coi saluti delle vacanze e come al solito gli chiesi se volesse lo stamp, il francobollo. Ne acquistò una decina per l’Australia.
Lasciai che scrivesse le sue dieci cartoline occupando l'intero bancone di vetro, affascinata da quella calligrafia che avrebbe mandato le immagini del mio bel monte dall’altra parte del mondo, poi prima di andarsene mi lasciò un dollaro americano sul banco. « For your kindness,» mi disse. In quel momento pensai che aveva davvero ragione mia mamma: sono molte di più le persone gentili che quelle sgarbate.

Sono passati decenni da quell’estate, il negozio di mia madre è stato venduto e al suo posto c’è una fondazione culturale. Io mi sono laureata, discutendo la mia tesi davanti a decine di persone fingendo di non avere paura. E allo stesso modo ho superato colloqui di lavoro a Milano e a Bologna, ho vinto dei concorsi, ho avuto delle promozioni. Ho fatto corsi di teatro e di canto per abbattere la mia timidezza, mi sono esibita, ho parlato in pubblico sempre fingendo il coraggio che mi manca. Ormai la ragazzina timida che non salutava i clienti è solo un tenero sorriso nel ricordo.
Conservo quel dollaro per ricordarmi che ogni persona è molto di più di quello che appare, lo era mia mamma, lo erano le tante persone che ho incontrato lavorando con lei, lo era il cow-boy australiano. E che vale la pena fare un passo oltre la paura per conoscerle meglio.


Questo racconto è stato pubbicato la prima volta il 17/01/2022 nell'ambito dell'esercizio "Racconta di un oggetto speciale" del corso "Scrittura di un romanzo passo dopo passo" tenuto da Christina Lopez Barrio.

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